I borghi del Giro d'ItaliaL'Italia dei borghi

I borghi del Giro d’Italia 2021 – Tappa 21

Senago – Milano TISSOT ITT
30,3 km

L’ultima giornata di corsa designa due vincitori.

Il primo conquista l’ultima tappa che è una crono lunga ben 30,3 km, mentre al secondo verrà inciso il nome sul Trofeo Senza Fine.

Si parte da Senago, ma la 21 ci obbliga a uscire dal tracciato e andare a cercare due borghi nei dintorni di Milano.

Il primo lo raggiungiamo dalla città di partenza, prendendo la pista ciclabile del Canale Villoresi. Dopo aver compiuto un tragitto di 36.2 km giungiamo a Nosate, sul limitare del Parco Naturale Valle Ticino, lungo la riva sinistra del fiume e al confine storico tra Lombardia e Piemonte.

È un piccolo comune con una superficie inferiore a 5 km2, il meno popoloso della città metropolitana di Milano e il secondo più distante dal capoluogo, all’estremità nordovest del territorio provinciale. Il canale Villoresi, che ci ha guidato sino a qui, lo attraversa per proseguire il suo cammino, ma il paese è bagnato anche dal canale Industriale e dal tratto iniziale del Naviglio Grande.

Dall’alto il centro storico domina il resto dell’abitato e si sviluppa attorno a piazza Borromeo, mentre il resto dell’agglomerato scende dalla collina fino a raggiungere l’antico tracciato del naviglio e il fiume.

Nella parte alta di Nosate troviamo la chiesa parrocchiale di San Guniforte, e nella parte bassa la piccola chiesa di Santa Maria in Binda (XIII Sec.), un gioiello imperdibile che da sola vale il viaggio.

Sorta tra il VII e l’VIII secolo la chiesetta di Santa Maria in Binda si trova in posizione isolata in mezzo ai prati  In antico veniva chiamata per esteso «Santa Maria di Dino de Binda di Nosate» e si è ipotizzato che Dino possa esserne stato il fondatore. La sola presenza del nome già ne riporterebbe la datazione al periodo franco o longobardo, poiché soprannomi e cognomi sono attestati nei documenti a partire dall’XI secolo. Nella terminologia longobarda binda significa «striscia di terra», quindi la lingua di terra non coltivata tra la costa del paese e il fiume Ticino.

In origine la chiesa era dedicata al culto dei morti, come molti altri oratorium longobardi. All’inizio del secolo scorso, durante le operazioni di scavo del Canale Industriale poco distante, vennero portate alla luce numerose sepolture longobarde dotate di corredi funerari, ora esposti nella sezione d’arte antica del museo del Castello Sforzesco di Milano. E la tradizione di sepoltura è continuata per molto tempo, tanto è vero che è ancora documentata nel 1680 e nel 1788.

L’attuale struttura dell’edificio sacro risale al Cinquecento, altri interventi nel presbiterio rimontano al Settecento, mentre il campanile neoromanico sul fianco meridionale è del 1926.

La facciata della chiesa ha profilo a capanna con portale architravato, affiancato da due finestre a lunetta con grate. A navata unica con terminazione rettilinea ha il tetto con travi lignee, mentre la pavimentazione è con lastre di pietra quadrangolari disposte a spina di pesce. L’interno è riccamente affrescato con buona parte delle pitture che due iscrizioni datano al 1512 ed eseguite da Giovanni Maria de Lione o de Leone della Castellanza per i signori Corvolo di Nosate e Giovanni de Cantono come ex voto. Sono presenti anche altri affreschi settecenteschi.

Oltre alla buona fattura ciò che spicca e li rende di maggiore interesse sono le tematiche. Si trovano soggetti consueti come Adorazione dei magi, Il compianto su Cristo morto, Santo Stefano, e Opere di misericordia, Inferno, ma c’è un sorprendente ciclo di affreschi mariani, con sequenze di Madonne in trono e Madonne del latte.

A colpire è soprattutto la presenza la presenza in quest’area della Lombardia di una danza macabra, tema iconografico che in Italia si espresse con il significato ammonitore nel Trionfo della Morte che qu. si trova nel registro inferiore della parete sinistra.

Il corteo prende il via con uno scheletro dall’espressione beffarda che indossa un sudario, porta una bara sulla spalla con fare disinvolto, ed è rivolto verso a un pontefice. Un secondo scheletro tiene un bastone in una mano e con l’altra trattiene un porporato. Altri scheletri si accompagnano ad altri ecclesiastici di alto rango.

Ancora uno scheletro tiene da una parte un’alabarda e, dall’altra, strappa di mano un pastorale a un abate. Accanto, uno scheletro che pare armato di uncino fa segno a un giovane nobile di seguirlo. Il corteo si chiude con la Morte armata di falce che accompagna il prevosto con il breviario e un prete benedicente. Gli affreschi sono stati restaurati tra giugno 1990 e ottobre 1991. La chiesetta è molto amata sia dai locali che dagli abitanti dei comuni vicini. Sulle pareti si trovano appesi numerosi ex voto, alcuni hanno ricami di seta che datano 1903, 1907, 1951.

Nei pressi dell’edificio c’è il parco comunale, da cui si dipartono le piste ciclopedonali sull’alzaia del Canale Industriale e del Naviglio Grande.

L’attuale chiesa parrocchiale di San Guniforte è stata costruita nei primi anni del XVI secolo, quando Nosate divenne parrocchia indipendente da Turbigo e Castano. Il disegno più antico che la ritrae è del 1570 e appare negli atti della visita pastorale di San Carlo Borromeo con pianta rettangolare e abside circolare. La facciata è di impianto barocco e il portale in serizzo riporta nella chiave un piccolo stemma con i simboli del martirio del santo, palma e corona. Si accompagna all’edificio sacro un elegante campanile settecentesco.

A navata unica conserva all’interno un pregevole soffitto a cassettoni con rosette e croci, che si replica nelle prime cappelle a ovest di ciascun lato. Il fonte battesimale (1765) si trova nella prima cappella verso nord.

In piazza Borromeo si trova Palazzo Visconti Borromeo edificato nel  XIX secolo e molto rimaneggiato nel tempo. L’impianto originario era a «L» attorno a un cortile aperto sulla valle del Ticino. Ora l’apertura è segnalata solo dal cortile stesso, a cui si accede attraverso un portale in cotto. L’ampio parco all’inglese è stato distrutto nel secondo dopoguerra e non esiste più neanche la veranda panoramica verso il bosco.

A separare Nosate dalla prossima meta sono circa 35 km. Percorriamo la SP 183, in gran parte pianeggiante, e ci fermiamo nel borgo di Ozzero, anch’esso posto su terra di confine, ma con la provincia pavese. Circondato da campagne coltivate e boschi che portano al fiume Ticino. è situato su una piccola collina tra i comuni di Abbiategrasso, Morimondo e Vigevano.

Il territorio è  ricco di boschi e corsi d’acqua come Rile, Gambarera, e Sombo, ma usufruisce anche delle acque del Ticino, attraverso il Naviglio Grande e il Naviglio Bereguardo, Naviglio di Bereguardo.

Il territorio venne frequentato da popolazioni celtiche e galliche, prima di passare sotto il dominio romano a partire dal III secolo a.C. I Longobardi vi giunsero verso il 568, divenendo parte della Curtis di Basigliano. In questo periodo si ha la prima attestazione come OGIALO su documenti testamentari. Nel 774 iniziò il dominio dei Franchi e, dopo il 1000, l’arcivescovo di Milano Ariberto di Antimiano provvide a fortificare il borgo.

Il toponimo deriva dalla nobile famiglia milanese degli Oxero od Ozero, che possedeva anticamente il castello e che fu alleata dei Torriani contro i Visconti.

Provenendo da Abbiategrasso, nel centro storico s’incontra in cima ad un lieve pendio e circondato dal verde Palazzo Marino Centurione, residenza signorile tardo gotico-rinascimentale. Per oltre cinquecento anni è stato chiamato «palazzo Centurione», poiché acquistato nel 1757 dalla moglie Giovanna  del marchese Giovanni Battista Centurione, ma oscure restavano le sue origini. Di  recente lo storico di Abbiategrasso Mario Comincini ha scoperto che fu edificato su ordine del genovese Tommaso Marino a metà Cinquecento, facendo partire le sue ricerche dallo stemma con le onde del mare in cima al portale di pietra a timpano spezzato.

Il banchiere non perse occasione di ostentare la sua ricchezza anche con la sua dimora di campagna, malgrado non raggiunga la magnificenza del suo celeberrimo palazzo a Milano, ora sede comunale. Lo scopo della sua costruzione a Ozzero fu la necessità di avere una base operativa per gestire le proprietà in zona, tra cui il patrimonio fondiario del monastero cistercense di Morimondo, ma una decina d’anni dopo la bancarotta lo costrinse a lasciare il paese e ad affittare il palazzo.

La struttura parallelepipeda è a pianta quadrata ed è provvista di portico. Si suddivide in pian terreno, primo piano di altezza considerevole, solaio in parte impostato a mezzanino. L’ampio sotterraneo a volte robuste era destinato a cucine, servizi e cantine. Spogliato da ogni arredo e decorazione l’interno si compone di grandi sale coperte da volte e, al piano superiore, mostra meticolose soffiature di legno. Una grande sala è provvista di camino su cui vi è apposto lo stemma, ma suscita maggiore attenzione un esempio piuttosto raro di architettura sanitaria di tardo Rinascimento: un piccolo locale d’angolo con pianta ottagonale, arricchito da nicchie e lesene sulle facce. Oggi, pur risultando di proprietà privata, questo importante edificio storico versa in stato di abbandono.

Dall’altra parte, su una collinetta, il castello quattrocentesco di origine viscontea domina il borgo e la valle. Nel tempo è diventato una residenza di stile barocco, la bianca torre poligonale ora chiamata Villa Bianchi Calvi, ma nella struttura le fortificazioni a pianta quadrangolare con torri sporgenti si intuiscono dalle tracce e da due basamenti.

Proseguendo troviamo altri due palazzi di spicco.

Palazzo Barzizza (XV-XVII sec.) è un edificio in muratura con pianta a «C». Al piano terra un bel porticato seicentesco si snoda sui lati est e sud orientale della corte quadrata centrale, aperta sugli altri due lati verso il grande giardino. Venne edificato sui terreni ceduti da Gian Galeazzo Sforza ai Malabarba, e da loro andati ai Barzizza, ed ospitò personaggi illustri come la duchessa Bona di Savoia. Il palazzo passò a Gerolamo del Frate e alla sua morte, nella prima metà del Settecento, alla moglie Donna Maria Rezzonico. In seguito il conte Alessandro Rezzonico della Torre lo passò in eredità alla Casa Pia Istituto dei Sordomuti Poveri di Campagna, poi andò al Comune che lo alienò a favore della famiglia Migliavacca, e nel 1989 è stato ceduto all’attuale proprietario.

Nell’ala padronale si segnalano le colonne in granito venato di rosa, mentre in quella della servitù c’è un colonnato in cotto. Un recente restauro ha consentito il recupero di un grande camino in pietra serena con fregi in bassorilievo, sul frontone gli stemmi delle casate e la data di costruzione «1596», mentre un secondo camino è decorato con affreschi di allegorie relativi al tempo. Il passare dei secoli e alcune vicissitudini non hanno permesso un buon recupero degli affreschi esterni. Tuttora sotto il vincolo delle Belle Arti, ospita un bnb.

Una fatto lega Barzizza alle cornacchie, soprannome degli ozzeresi. Il proprietario Barzizza lasciò un lascito per vedove e orfani, ma ordinò che loro portassero mantelline nere in segno di dolore. Con il vento le mantelline svolazzavano tanto da sembrare delle piccole cornacchie.

L’altro edificio è Palazzo Cagnola, dal nome dell’illustre famiglia che iniziò ad abitarlo nel 1600; oggi, è sede del Municipio. Nel cortile interno svetta la torre ottagonale detta «torre spagnola», poiché fu costruita durante la dominazione spagnola con il ruolo di avamposto militare a controllo del territorio, soprattutto per individuare l’eventuale arrivo di invasori dalle sponde del Ticino. Accanto c’è un pozzo con all’interno un grosso vaso usato come riserva d’acqua. Al piano terra si accede a un salone dove vivevano i soldati, che per salire verso la parte superiore si avvalevano una scala elicoidale lungo le pareti interne, con nicchie per facilitare il passaggio nel caso si incrociassero.

Durante l’adeguamento a residenza estiva, la torre divenne un belvedere, da cui in certe giornate è possibile individure il Duomo di Milano. Si occupò dei lavori l’architetto di famiglia Luigi Cagnola, vissuto a cavallo dell’Ottocento, che divenne famoso e a Milano per  l’Arco della Pace in Parco Sempione  e l’Arco di Porta Ticinese, ma operò anche a Vienna. A Ozzero provvide al campanile della parrocchiale, edificio caro alla famiglia. In occasione del restauro fatto dal Comune tra il 1970 e il 1980 è stata recuperata dal pozzo una statua di gesso, forse fatta dallo stesso Cagnola, e che ora è all’ingresso della torre. In una nicchia del salone è stata ritrovata la data «1671», che potrebbe esse l’anno di erezione. Ben conservata risulta essere anche una ghiacciaia.

A lato di Palazzo Cagnola c’è la chiesa parrocchiale di San Siro, un edificio sacro dalla storia quasi millenaria, di cui l’attuale aspetto data all’epoca del cardinale Carlo Borromeo. È citata dal XIII secolo come dipendenza della Pieve di Rosate e nel 1398 compare come capella tra il plebato di Rosate, mentre risulta parrocchiale dal XVI secolo. Nel 1888 passò alla pieve di Abbiategrasso.

All’interno custodisce affreschi quattrocenteschi e una Madonna col Bambino di stile leonardesco, copia della Madonna con Sant’Anna al Louvre.

In località Bugo, nella cascina omonima, è sito la chiesa-oratorio di San Francesco (XV sec.), più volte restaurata nel corso dei secoli e che è ora di proprietà privata.

In prima istanza fu intitolata al Santo Crocefisso, dopo la peste del 1576 dedicata a San Sebastiano, ma non si conosce la data in cui la titolazione passò a San Francesco. Ad aula unica, tetto a capanna e campaniletto a vela, è un esempio interessante di oratorio rurale tardogotico rinascimentale.

All’esterno si segnalano alcuni dettagli in cotto in buono stato di conservazione: archetti pensili, cornice del portale che racchiude l’arco ogivale anch’esso in cotto, attorno alla lunetta sopra la porta. L’interno ha il soffitto di travi a vista e abside quadrata con volta a vele su cui è dipinto un affresco (XV secolo) di pregio dominato da una Crocifissione.

Sul territorio si può seguire un itinerario con protagonisti gli antichi mulini, come Roma, Trinchera, Santa Maria del Bosco e Bugo.

Sfrutta le acque della Roggia Rile il Mulino del Maglio, così chiamato in quanto una delle sue ruote azionava un maglio (l’altra il mantice) per la lavorazione di ferro, rame e bronzo. Nel 1391 i Deputati della Fabbrica del Duomo di Milano chiesero a Lombardo de Ozeno di forgiare «chiavi e leve», tiranti ed elementi di giunzione per pietre e legni. Alla fine del Settecento il maglio smise di essere utilizzato e il mulino iniziò a produrre olio di lino avvalendosi di un torchio.

È il momento di compiere l’ultimo atto di questo giro godendoci il viaggio sull’alzaia del Naviglio Grande per assistere al gran finale in piazza Duomo a Milano.

Su 3.410,9 km di strada in 21 tappe si è svolta la più grande kermesse mondiale che coniuga cultura e sport. Il Giro d’Italia è la migliore promozione turistica del Belpaese nel mondo, una manna per questo complicato periodo di ripresa. Quest’anno è stato impreziosito dall’omaggio a Dante Alighieri, il Sommo Poeta di tutti i tempi, quindi giro dantesco e, per alcuni ciclisti, si è trasformato in girone dantesco, ma tutto in sicurezza senza nemmeno un positivo al Covid tra corridori, tecnici, ciclisti e tutte le figure che fanno parte della grandioso ingranaggio rosa.

E finiamo con la frase colma di ammirazione e rispetto detta dal vincitore del Giro 104, il colombiano Egan Arley Bernal Gómez, cresciuto ciclisticamente in Italia: «La corsa più bella del mondo nel paese più bello del mondo».

L’attesa per il Giro 105 è già iniziata!

Adriana Maria Soldini

 

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