I borghi del Giro d’Italia 2021 – Tappa 18
Rovereto – Stradella
231 km
È la tappa più lunga del Giro con i suoi 231 km, attraversa la Pianura Padana da nord a sud, passando per 5 regioni e 7 province. Adatta alle fughe da lontano è anche l’ultima occasione per i velocisti. La linea del percorso si alza e si abbassa sulle colline dell’Oltrepò Pavese, ma negli ultimi chilometri la linea si acquieta e un lungo rettilineo porta all’arrivo.
Noi partiamo decisi e ci fermiamo all’unica incursione nella provincia di Brescia, Pozzolengo.
Adagiato tra il lago di Garda e le colline moreniche il borgo fa parte della zona viticola del noto vino Lugana.
Il nome Pozzolengo viene da Pocelengum, termine dal doppio significato. Il primo si riferisce all’etimologia del nome poce («villaggio») e lem («campagna»), quindi «paese di campagna». Il secondo è relativo ai numerosi pozzi presenti, a cui fa riferimento anche lo stemma comunale che mostra l’insegna di un pozzo.
Il territorio fu frequentato dalla preistoria, ma il primo insediamento si sviluppò probabilmente verso il II secolo a.C., legato alla via Gallica o Emilia, attorno a una mansio dell’Impero Romano. Tempo dopo un abitato sorse nella Palada, attorno al castelletto, che costituì una prima fortificazione in posizione dominante, distrutta poi dagli Ungari. Lo storico Castello di Pozzolengo venne eretto verso il Mille in cima al monte Fluno.
All’inizio del Seicento era tra i centri più fiorenti dell’area, ma una trentina d’anni dopo dovette affrontare l’assedio dei lanzichenecchi, durante la battaglia di Mantova e del Monferrato. L’offensiva durò dall’1 all’8 giugno e gli abitanti non solo resistettero all’interno del castello, ma riuscirono a respingerli e a causare loro numerose perdite. Questo atto coraggioso e vittorioso fece guadagnare loro, il 14 giugno 1630, un encomio autografo del doge Nicolò Contarini, poiché all’epoca Pozzolengo faceva parte della Riviera di Salò, ma in breve tempo ottennero anche l’elogio del Doge di Venezia. E Il clamore arriva a noi oggi con la rievocazione storica.
Altre battaglie si combatterono nel tempo. Nell’Ottocento il territorio fu teatro delle battaglie risorgimentali, in particolare della battaglia di San Martino e Solferino del 24 giugno 1859 tra l’esercito austriaco e quello franco-sardo. Secondo fonti austriache in località Ponticello, dove c’era un antico convento, venne sparato il primo colpo d’arma da fuoco che diede inizio al conflitto. Fu la battaglia più colossale dopo quella di Lipsia del 1813, e vi presero parte oltre 230.000 soldati. Lo scontro pose fine alla Seconda Guerra di Indipendenza italiana.
All’interno il borgo medievale fortificato è ancora abitato e offre una vista panoramica sul parco Don Giussani, che si estende per 5 ha. Inaugurato nel 2011 conta circa 500 essenze ad alto fusto ed è dotato di un percorso benessere e di giochi per i bambini.
Costruito tra il IX-X secolo il castello di Pozzolengo venne riedificato nel XIII e ristrutturato nel XVI secolo. Riprende il modello del recinto fortificato con cortine murarie in ciottoli di fiume e ha pianta trapezoidale, con lati est e ovest più lunghi, lati nord e sud più brevi. La cortina delle mura presenta merlatura guelfa e vi sono inserite numerose torri cilindriche, più numerose sui fronti occidentale e meridionale. A nord si trova il mastio a pianta quadrata, da cui si accede al castello risalente al XVI secolo con altre strutture abitative, quando fu occupato dalla Repubblica di Venezia.
Una torre angolare venne trasformata in campanaria per la piccola chiesa romanica di San Lorenzo, che fu parrocchiale, di cui sono visibili i resti dell’abside con lacerti di un affresco del 1300, raffigurante Cristo con gli evangelisti Marco e Giovanni. Durante il restauro si trovò una pietra, con un’incisione comprovante il potere della famiglia Gelmetti a quell’epoca, che resta nell’abside.
Oggi palazzo Gelmetti è sede municipale dagli inizi del ‘900 e si trova nel centro storico, come le altre dimore più rilevanti.
Palazzo Piavoli fu anch’esso in origine proprietà dei Gelmetti, che vi abitarono verso la fine del 1700, dopo il trasferimento dalla loro abitazione nel castello, e conserva affreschi e strutture architettoniche del 1800.
Piazza Don Gnocchi è un splendida balconata sul vasto panorama di colline moreniche, Lago di Garda e Prealpi.
Qui si erge imponente la storica torre di San Martino, a ricordo della battaglia del 1859 e vi si affaccia Villa Albertini, palazzo ottocentesco restaurato nel 2008 dalla Fondazione Don Gnocchi, a cui venne lasciato dalla moglie dell’ultimo discendente insieme al terreno circostante.
Un tempo era chiamato «Villa Pietro Keller» dal nome del primo proprietario, la cui figlia Anna sposò il conte Giovanbattista Albertini. Si compone di un portico a cinque archi e sale finemente decorate La fondazione ha lasciato in comodato al Comune l’uso della piazza, la sala della biblioteca e la sala civica, che mostra sulla parete principale la decorazione raffigurante un albero della vita.
Degne di nota sono la chiesa parrocchiale di San Lorenzo martire e l’abbazia di San Vigilio.
Parrocchiale dal 1510 la chiesa di San Lorenzo martire fu dedicata a Maria fino al 1675 e deve la sua imponenza agli ampliamenti del XVIII secolo con la trasformazione della pianta a croce latina e l’aggiunta di una cupola centrale, a cui seguì un complesso di trentasei colonne cilindriche finemente marmorizzate, sorrette da piedistalli di pietra con al vertice capitelli corinzi.
Con orientamento a ovest la facciata è a capanna in stile neoclassico con portale in bronzo del peso di 8 quintali, opera dello scultore Don Luciano Carnessali, e vi spicca addossata al fianco nord la torre campanaria.
Al suo interno la navata misura 54.45 m con la pavimentazione in quadrotte di marmo rosso Verona e marmo chiaro di Botticino. Il presbiterio quadrangolare, rialzato di due gradini, è impreziosito da un pavimento in lastre di marmo rosso Verona su cui poggia un altare con intarsi di marmi e pietre preziose. È sormontato da una volta a vela decorata con l’Ultima Cena di Licinio Speri, e chiuso da un’abside a fondale piatto dove domina l’ottocentesca pala del Martirio di San Lorenzo. Altre opere di pregio sono la tela del Redentore del Brusasorci, la tela Gesù deposto e santi di Andrea Celesti (1692 ca), una tela di Gabriele Rottini (1843) e la pala di San Luigi Gonzaga di Padre Andrea Pozzo (1642-1707). Da non perder è l’organo Antegnati (1608), restaurato nel 1881 da Gaetano Zanfretta.
Un gioiello è conservato all’interno dello Chervò Golf Hotel e Resort San Vigilio, una struttura turistica e sportiva. Si tratta dell’abbazia di San Vigilio, eretta nel 1104 dai monaci benedettini ed è uno dei monumenti religiosi meglio conservati sul territorio dell’epoca. Si tratta di un complesso rinnovato dopo il 1443 dall’abate veneto Pietro Lippomano ed ultimato nel 1481 che si struttura in chiesa con campanile, porticato e cortile dell’antico convento.
Nell’itinerario di visita va inserito anche il Cimitero Monumentale, situato su una piccola collina, appena fuori l’abitato del Paese, e preceduto da un viale. Fu edificato nel 1881 dall’architetto Giovanni Faini e si dispone su due enormi gradoni con mura di cinta architettoniche. Costituisce un vero complesso artistico vincolato dalle Belle Arti e inserito nell’elenco dei Beni Culturali pregiati.
Nella natura circostante si trovano ambienti umidi e l’oasi abitativa di numerosi specie animali. La torbiera della Mantellina ha fatto da scenario al lungometraggio Il pianeta azzurro di Franco Piavoli, dove si susseguono le stagioni nel paesaggio di campagna.
Anche il palato è deliziato da numerosi prodotti tipici di qualità. Oltre al vino Lugana DOC c’è lo zafferano di Pozzolengo tra i migliori d’Italia, il salame morenico De.Co e il Biscotto di Pozzolengo con farina di farro.
Attraversiamo le province di Mantova e di Cremona ed entriamo in Emilia Romagna, nella provincia di Piacenza, per visitare Monticelli d’Ongina.
Si trova in pianura sulla riva destra del Po lungo la strada che collega Piacenza a Cremona. Punto strategico sul fiume, che qui ha un andamento ampiamente sinuoso, il borgo ha origini romane, di cui si sono trovate numerose attestazioni.
Nel X secolo si trovava sotto il vescovo di Cremona, poi feudo di due famiglie cremonesi, i Da Dovara e i Bonifaci de Unghinis (da cui il toponimo). E poi i Visconti che lo diedero ai Pallavicino, a cui seguirono dopo l’ultimo erede i Farnese di Parma, gli Spagnoli, i Francesi, e nell’Ottocento andrà sotto il Ducato di Parma con Maria Luigia d’Asburgo.
Un presenza storica importante a livello culturale e che ha lasciato un segno nell’impianto urbanistico è quella della comunità ebraica, i cui primi insediamenti rimontano al XV secolo. Si concentravano per la più parte nella Contrada granda, l’attuale via Garibaldi, ma i suoi membri emigrarono nel XX secolo a seguito della proclamazione delle leggi razziali fasciste. Della sinagoga attiva fino al 1930 restano solo i muri esterni ed era posta all’ultimo piano di un edificio posto tra via Garibaldi e via Cavour.
Soprattutto rimane il cimitero ebraico, separato da un muro da quello comunale e circondato sugli altri tre lati da un muro più basso. Si suddivide in due aree rettangolari chiuse da un cancello di ferro. Il primo campo è un prato privo di lapidi e precede il cimitero vero e proprio, e in prossimità del secondo cancello è presente un lavello ottocentesco in pietra per il rituale lavaggio delle mani all’uscita. Le tombe sono disposte in doppia fila ai lati di un vialetto lastricato, e alcune lapide della seconda metà dell’Ottocento presentano intarsi in bronzo, mentre altre degli inizi del Novecento mostrano steli con decorazioni liberty. Il vialetto porta alla camera mortuaria, utilizzata soprattutto da una famiglia che ora abita a Milano, ma che qui seppellisce ancora i suoi defunti.
Infine, vi è collegato il dolce più caratteristico, la Spongata di Monticelli, il dolce tradizionale della Pasqua ebraica. È una torta di pasta sfoglia farcita di un composto di miele, noci, pinoli, uvetta e amaretti tritati.
Il centro storico mostra reminescenze rinascimentali e barocche. Si ammirano i portici e i palazzi nobiliari di via Martiri della Libertà, la basilica di San Lorenzo, la chiesa di San Giorgio e la rocca.
L’impianto è merito dei Pallavicino ed è racchiuso tra via Martiri della Libertà, via Pallavicino, via Alfieri, via Bixio. Le costruzioni erano allineate lungo le contrade parallele e orientate verso la Rocca. I Pallavicino sono gli artefici della rocca costruita nel XV secolo abitata da una corte culturalmente vivace Nel 1471 il vescovo di Lodi Carlo Pallavicino iniziò l’erezione della Collegiata di San Lorenzo, oggi Basilica, dove sono custoditi i sui resti nell’abside. Il paese venne ampliato tra il Cinquecento e il Settecento con la costruzione dei palazzi Azzoni e Archieri su via Martiri della Libertà, dell’ex ospedale (ora casa protetta per anziani non autosufficienti) voluto dal vescovo di Fidenza, e di Villa Casali che è l’attuale sede del Municipio.
La rocca o Castello Pallavicino Casali è uno degli edifici di difesa più imponenti del piacentino. È stato eretto agli inizi del Quattrocento da Rolando il Magnifico dei Pallavicino con il progetto di farne un presidio militare, ma a causa della sua morte fu portato a termine dal figlio Carlo, vescovo di Lodi, che ne fece la sua residenza estiva. Nella seconda metà del 1500 i Pallavicino si estinsero e passò ai marchesi piacentini Casali, che rimasero signori fino all’abolizione del sistema feudale e vi abitarono fino al 1957 quando l’edificio fu acquistato dalla chiesa parrocchiale di San Lorenzo. Costruito in mattoni cotti è uno dei castelli di più vaste dimensioni della bassa padana e presenta la tipologia tipica dei castelli di pianura: pianta quadrangolare con quattro torrioni rotondi agli angoli, sporgenti dalla linea delle cortine, come lo sono i due masti al centro dei fronti orientale e occidentale. Questi sono sormontati da affreschi con lo stemma dei marchesi Casali, e nell’androne del mastio orientale (ingresso principale) sono visibili tracce di affreschi antichi, tra cui una quattrocentesca Madonna con Bambino.
Un porticato con arcate a tutto sesto, di sui resta un solo lato aperto, gira attorno al cortile interno dalla pianta rettangolare. Scale a chiocciola portano ai camminamenti di ronda lungo le cortine, sulle torri e sui masti, coronati da merlatura ghibellina. Un ripido scalone in pietra conduce al primo piano riservato agli appartamenti nobili, che conservano decorazioni parietali settecentesche e soffitti con pregevoli affreschi illustranti le allegorie delle stagioni. Sul soffitto del salone principale un grande affresco raffigura il trionfo del casato Casali. Oggi in questi saloni si tengono eventi culturali.
Collegata agli appartamenti nobili da una galleria è la Cappellina di Corte (XV sec.), detta «Cappellina del Bembo», la cappella privata del vescovo Carlo Pallavicino che è dotata di un prezioso ciclo di affreschi dei pittori Bonifacio e Benedetto Bembo. Sono rappresentati figure di angeli, profeti e personaggi dell’epoca, alcuni episodi della vita di San Bassiano da Lodi, Ultima Cena, San Giorgio che uccide il drago, Vergine Maria con i santi Bernardino da Siena e Bernardo da Chiaravalle, Calvario con la Crocifissione, Annunciazione, Deposizione dalla Croce, i quattro Evangelisti e un ritratto di monsignor Carlo Pallavicino.
I sotterranei, usati un tempo come cantine e scuderie, oggi fanno da sede all’Acquario del Po e Museo del Po, dal carattere etnografico e con reperti archeologici.
Il museo, allestito dal 1974, si collega all’acquario del Po dove vive una selezione della fauna ittica del medio Po. Si tratta di un settore suddiviso in una ventina di vasche per la conservazione e la presentazione al pubblico delle specie dei pesci, documentate da schede con i dati scientifici sulla diffusione e l’ambiente. Nel percorso espositivo sono inclusi anche due diorami con esemplari faunistici, come rettili, mammiferi e uccelli. Sono imbalsamati airone rosso e cenerino, tasso, lontra, faina, volpe, nitticora, cormorano, ecc. La struttura si avvale della collaborazione universitaria per la riclassificazione dei pesci d’acqua dolce e la riproduzione in cattività degli esemplari in via di estinzione per finalità di ricerca e il possibile reinserimento in natura.
Il Museo del Po conserva reperti che risalgono a tempi remoti. L’abbassamento delle acque del Po, dopo le piene, consente il ritrovamento di ossa di mammut, corna di bisonte, di cervo, di alce, risalenti a 15-20.000 anni fa, a testimoniare un ambiente forestale. Ma ci sono anche reperti d’epoca romana, come anfore, cocci di vasellame. I resti un pozzo artesiano settecentesco, proveniente da una piena distruttiva su una vasta area costiera, è stato ricostruito in museo. Sono in mostra anche una vasta gamma di strumenti di lavoro legati al trasporto fluviale e alla pesca che risalgono a tempi lontani e narrano di una vita rivierasca padana, come attrezzi per la pesca, la raccolta dei tronchi trasportati dalla corrente, la segatura, la schiappatura, la cavatura della ghiaia e della sabbia. Ma sono presenti anche esemplari di barche e il loro corredo di lanterne, cordame, ancore e altro. Il pezzo di maggior valore è una piroga monossile (da un unico tronco) in legno di quercia farnia Quercus robur e datata al VI secolo, che in origine era lunga circa 10 m.
È stata ritrovata nel 2000, nei pressi di Isola Serafini che è di particolare pregio naturalistico e classificato Sito di Interesse Comunitario (SIC), come punto di sosta e alimentazione per i migratori e per le tipologie di vegetazione. Per cinque anni è stata irrorata con acqua e biocidi prima del restauro durato tre anni.
Una sezione è dedicata alla vita contadina delle campagne monticellesi e aree limitrofe con attrezzi per la lavorazione della terra, un’attrezzatura completa per fare il pane, la pasta, la polenta, un antico esemplare di ghiacciaia, tanti oggetti legati all’utilizzo del camino e della stufa; attrezzi vari da cantina per la pigiatura e la conservazione del vino, e molto altro per la conduzione domestica. Sono narrati gli antichi mestieri come l’arrotino, il fabbricante di scope, il bottaio, il maniscalco, il norcino, la filatrice.
In alcune sale del piano terra si trova il Museo civico che custodisce documenti storici del paese e cimeli di personaggi illustri, che soprattutto raggiunsero la fama grazie alla musica, come il pianista e compositore Amilcare Zanella, la soprano Brigida Banti Giorgi e il tenore Andrea Toscani.
Sull’area dell’antico castello si trova la basilica di San Lorenzo (ex Collegiata), costruita tra il 1470 e il 1480, restaurata fra il 1682 e il 1694, e dalla facciata tripartita datata 1877 su progetto dell’architetto Arborio Mella, su cui appare una decorazione musiva rappresentante la Vergine Immacolata. I tre portali sono sormontati da lunette dedicate al patrono San Lorenzo e ai titolari delle altre due chiese, San Giorgio e San Giovanni Battista. Nel 1881, su disegno dell’ing. Barbieri da Modena, il campanile fu sopraelevato fino a 65 m e nel 1888 fu dotato di un concerto di otto campane.
All’interno ha pianta a croce latina con abside esagonale per un totale di 51 m di lunghezza e 35 di larghezza. Sfarzosa è ricca di opere in gran parte di artisti cremonesi del XV e XVI secolo. Presbiterio e coro sono impreziositi da affreschi e dipinti (1682-1694) del pittore fiammingo Roberto De Longe, mentre gli affreschi delle vele e delle lunette, oltre ad alcune tele, sono di Giovanni Battista Natali e figlio.
Si segnalano: il quadro Madonna con Bambino di Altobello Melone; le tele di San Girolamo, Santa Lucia, Santissime Cecilia e Caterina, Transito di San Giuseppe di Giovanni Battista Trotti, detto «Malosso»; le tele Crocefisso e Santi, Decollazione del Battista, Santa Margherita, Santa Brigida, di Andrea Mainardi, detto «Chiaveghino». Nella sacrestia sono conservate altre opere pittoriche e una raccolta preziosa di paramenti sacri.
Lasciamo il borgo per arrivare nella zona vitivinicola dell’Oltrepò Pavese con il traguardo nella città di Stradella.
Adriana Maria Soldini
No Comment